Bong Joon-ho è uno dei pochissimi registi di “cinema dal vero” che scrive e dirige i suoi film come se fossero in realtà cartoni animati. La scrittura della sceneggiatura va sempre di pari passo con la creazione dello storyboard e ogni inquadratura contiene degli elementi che vengono relegati sullo sfondo ma che in realtà ci dicono molto di più di ciò che si comprenderebbe analizzando solo ciò che avviene in primo piano. E come spesso avviene per i cartoni animati, le idee dei suoi film nascono da un’immagine o dall’idea di un luogo dove far svolgere la narrazione. Così anche la disparità sociale di Parasite viene evidenziata, prima ancora che dalle vicende che coinvolgono i personaggi e dalla loro condizione economica, dalla casa in cui questi vivono. Quella minuscola dei Kim, semi-interrata ma con una finestra molto larga da cui entra la luce, da sola sintetizza la precarietà di una famiglia che vive sospesa tra l’angoscia di sprofondare definitivamente e la speranza finalmente di emergere, alimentata ogni giorno dalla luce solare che li illumina quando possibile (come già le carrozze in coda treno di Snowpiercer, che ricevevano luce solo per mezz’ora al giorno). Al contrario, la lussureggiante abitazione dei Park non si affaccia sul mondo esterno (come invece fa quella dei Kim, posizionata a ridosso della strada) ma è una struttura disegnata per contemplare se stessa. Dall’elegantissimo salone, attraverso una vetrata immensa con aspect ratio 2.35:1, i personaggi ammirano il loro stesso giardino e ogni stanza della loro casa è arredata con le “opere d’arte” create dal primogenito Da-song (che viene definito dalla madre “il nuovo Basquiat”): l’autoreferenzialità di una intera classe sociale spiegata attraverso piccole scelte di design.

Dopo il “teorema” pasoliniano e la “crazy family” di Gakuryū Ishii, acquisito il passaggio dalla dimensione piccolo borghese a quella psichiatrica effettuato da Takashi Miike, che con il suo “visitor Q” (un regista, ovviamente) aveva tentato di rimettere in piedi quello che era stato precedentemente disintegrato (il nucleo famigliare) da questi ospiti cinematografici inattesi ed invadenti, adesso i “parassiti” di Bong Joon-ho non hanno alcun interesse perverso (nel suo significato etimologico di rovesciamento e in quello psicoanalitico-lacaniano di assimilazione di Dio in sé) se non quello di penetrazione (non letterale come in Miike). La metamorfosi che questi compiono non mira ad annullare la distanza tra soggetto e desiderio, bensì a ridurre quella tra classi attraverso una gentrificazione auto-imposta che (ancora secondo Lacan) può compiersi solo attraverso il masochismo (di una singola famiglia come di una intera classe sociale). Quello dei personaggi di Bong Joon-ho, come già avveniva nella “rivoluzione concessa” di Snowpiercer, è sempre movimento nello spazio (orizzontalmente come nel film del 2013, verticalmente come in Parasite) e mai mobilità sociale che non sia selezione operata dalla classe dominante. Le loro “conquiste” sono sempre illusorie e i loro cambiamenti sono in realtà “sostituzioni” (che per definizione non modificano il contesto generale).

Stavolta la concessione della classe dominante non è consapevole come quella del capotreno Wilford, ma ingenua, farsesca. Come in una commedia all’italiana, i personaggi di Parasite si credono molto più furbi dei loro padroni, ma il processo di incorporazione nelle élites che compiono è “essenzialmente conservatore nelle sue implicazioni per la struttura di classe nel suo complesso”, per dirla con Goldthorpe. Non più solo “high and low” come nel film di Kurosawa, ma diversi livelli da abitare e soprattuto diverse altezze dalle quali guardare (spiare) gli altri. Sulla scala principale della casa, che Bong Joon-ho sfrutta in tantissimi modi diversi, i personaggi camminano con l’eccitazione di chi vuole scoprire cosa c’è sopra di loro o con l’ansia e la paura di chi deve scappare da qualcosa. Ma la scala non è solo il mezzo attraverso il quale scendere e salire. La sua stessa presenza nella scena è psicologicamente determinante (come quelle parigine di Rififi riprese lateralmente) e ricorda in ogni momento la possibilità di un riscatto ma anche di una rovinosa caduta (come accadeva in Hanyeo di Kim Ki-young, a cui Bong Joon-ho guarda spesso in maniera esplicita).

La famiglia dei Kim si accontenterebbe anche solo del commensalismo, di vivere cibandosi dei detriti e delle secrezioni depositate dagli altri, senza per forza sviluppare patogenicità. Ma la loro natura è quella di parassiti obbligati, in grado di sopravvivere solo sfruttando differenti organismi viventi e incapaci di resistere nell’ambiente esterno a loro ostile (i Kim come i Park, che sui primi devono contare per poter svolgere le loro attività quotidiane). Le luci e le ombre di Kyong-pyo Hong non lavorano più sulle facce dei personaggi come in Burning di Lee Chang-dong, ma sugli ambienti in cui questi si muovono. L’illuminazione cambia radicalmente, come nella corsa sotto la pioggia: dalle luci al led dei quartieri ricchi alle lampade ad incandescenza delle baraccopoli popolari. Ma la qualità della luce è decisiva come la sua quantità: i Kim sono costretti ad accendere le luci della propria abitazione anche di mattina, mentre i Park, dopo aver goduto di tantissima luce naturale durante il giorno, preferiscono avere una illuminazione più tenue in casa quando il sole cala (persino una delle idee più forti del film, una di quelle immagini indelebili a cui il cinema di Bong Joon-ho ci ha ormai abituato, riguarderà il modo in cui le luci della casa dei Park vengono accese “da remoto”).

L’acquisizione dei modi della classe dominante è ora immediata. Gli attori di Bong Joon-ho cambiano modo di parlare e adottano espressioni facciali nuove nel momento in cui “dismettono” i loro veri abiti e indossano quelli “buoni” dell’alta società. I ricchi si mascherano da poveri per mostrarsi compassionevoli e i poveri si mascherano da ricchi per vivere tra loro ed impressionare i padroni. Ma sono travestimenti che non alterano la realtà dei fatti. Ricchi e poveri vivono in due mondi diversi, in cui persino gli agenti atmosferici hanno un impatto diverso sulla loro esistenza. Se la pioggia vista dalla casa dei Park è addirittura romantica (il rumore delicato sui vetri, la tempesta ovattata in sottofondo) per i Kim è una catastrofe capace di pregiudicare definitivamente le loro prospettive di vita. Come la pioggia che investe la famiglia più povera del film, il cinema di Bong Joon-ho comincia come uno scroscio leggero, quasi piacevole, per poi evolversi in un tifone ingestibile e dalle conseguenze devastanti. Ma non è la pioggia ad aumentare di intensità, bensì lo spettatore a cambiare punto di osservazione.