“Solo l’eterno (lo eterno), ciò che non ha mai cessato di essere, sarà un’altra volta rivelato (revelado), e la sorgente omerica scorrerà di nuovo (volverá)», scriveva il poeta spagnolo Antonio Machado nel 1919, dopo il massacro della Prima guerra mondiale. Ed è a quella tremante fonte che si abbevera Guédiguian per questo suo nuovo film - uno dei suoi migliori - la cui narrazione si svolge tutta sotto il busto di Omero in rue d’Aubagne, nel cuore di Marsiglia. A pochi passi da lì, il 5 novembre del 2018, alle 9 del mattino, crollarono al suolo due interi edifici: otto morti, molti feriti e migliaia di evacuati dalle altre abitazioni pericolanti nella zona popolare di Noailles. È quella la “carneficina” - restando nel paragone con Machado - da cui deve scorrere nuovamente la sorgente di una narrazione omerica, ovvero la narrazione dell’Occidente per eccellenza, che vuol dire cogliere la possibilità di raccontare in modo diverso, utilizzando le emozioni per suscitare nuove forme di intelligenza nel cinema, nella politica e nella società. Che poi è quello sostenuto, in altre forme, dalla giornalista, scrittrice e commentatrice politica turca Ece Temelkuran, nel suo saggio La fiducia e la dignità, in cui ribadiva la necessità di riappropriarsi di parole accoglienti come «dignità», «partecipazione», «attenzione», ma anche «forza», per contrastare le derive che negli ultimi anni si sono compiute all’ombra di un vocabolario del risentimento.

D’altronde non è forse un caso che il testo narrativo più antico di tutti, l’Iliade, inizi con la parola «ira». Gli sconfitti, i rovinati, gli sfavoriti diventano udibili nella storia solamente quando sono arrabbiati, ci dice Temelkuran. Da tempo immemorabile, la rabbia è l’inchiostro con cui chi è stato cancellato può scrivere se stesso nella storia dell’umanità. Pertanto, non solo amiamo la rabbia, ma abbiamo anche creduto nel suo potere dal giorno in cui abbiamo iniziato a chiedere giustizia. La costante espressione della rabbia, di questa «ira», però - e qui interviene Guédiguian - finisce per erodere la propria connessione con la sfera politica fino al punto che il proprio coinvolgimento rischia di consistere unicamente di rabbia. Il rumore della rabbia, anche quando nata da un’ingiustizia ben riconoscibile, non lascia spazio alla mente di pensare chiaramente o di prestare attenzione a ciò che sta dietro la rabbia stessa, all’incidente - o alla tragedia, in questo caso - che ha indotto la rabbia in primo luogo. A questa frustrazione, spesso privata, individuale, è preferibile invece l’organizzazione collettiva, lo stare insieme, inteso come strumento utile a essere riconosciuti come esseri umani dal potere centrale e oppressivo. La scelta di riunirsi diventa, quindi, di per sé, una dichiarazione politica indispensabile: l’unico atto o stato dell’essere che può mettere un freno al potere che minaccia la libertà.

Al centro di questo film anti-naturalistico, che utilizza il dato di realtà come sfondo per una narrazione squisitamente mélo, c’è Rosa, una versione molto romanzata di Michèle Rubirola, figura dell’attivismo marsigliese che nel 2020 era stata inaspettatamente catapultata nella competizione elettorale a sindaco, perché considerata l’unica capace di radunare - mettere insieme, appunto - la sinistra. L’alter ego guédiguiano è un’infermiera, vedova, madre, nonna, che si riscopre innamorata in età senile. Accanto a lei, un’altra figura femminile fondamentale, rappresentante di una nuova generazione, quella della nuora Alice, direttrice di coro impegnata in un’associazione che aiuta gli sfollati dagli edifici inagibili. Una professione non casuale, visto che anche il film non ha una regia univoca, ma invece aggrega, prolifera proprio in una forma corale, fa crescere l’albero delle storie e delle sottotrame dalle radici ben salde nella narrazione di queste due donne. Guédiguian non si sottrae: mette momentaneamente in soffitta l’impegno politico più pedante, nello stesso rifiuto bartlebyano della protagonista, e si riscopre leggero, fino a una folgorante scena in cui si arriva a citare Le Mépris di Godard, riutilizzando la musica originale di Georges Delerue. E si torna, quindi, a Omero. Già nel testo di Moravia, e nella sua trasposizione cinematografica, si indagava la possibilità di riscrivere Omero, di “reinterpretarlo”, magari in una chiava psicoanalitica. Alla fine il personaggio di Fritz Lang, incaricato di questo gravoso compito, avrebbe rifiutato una riscrittura moderna, decidendo invece di tornare al cinema classico. “Il mondo di Omero è un mondo reale”, sentenziava il regista cieco (come il cantore greco). Ed è la stessa conclusione a cui approda Guédiguian.