Il reale e il fantasmatico trovano differenti e inediti punti di compenetrazione in questo ultimo film di Andrew Haigh, da sempre regista dell’hic et nunc, del presente come unico terreno di gioco, di epopee condensate nel giro di un fine settimana (Weekend, 2011), di una settimana intera (nonostante il titolo, in 45 years, 2015) o, al massimo, di una stagione, che tiene in sé tutta un’adolescenza (Lean on Pete, 2017). Questo suo nuovo Estranei, trasposizione del romanzo di Taichi Yamada del 1987, subito reso al cinema da Nobuhiko Obayashi un anno dopo, è un complesso strumento che soffia aria nelle immagini, il mantice che il regista utilizza per spingere i fantasmi nel fotogramma. Presenze misteriose che si rivelano allo spettatore in maniera decisamente meno esplicita rispetto al film di Obayashi (in cui esisteva tutto un gioco metatestuale di rimandi con l’estetica televisiva della soap opera nipponica degli anni Ottanta): si rivelano in un flare, nella tenue luce pomeridiana, nella compresenza di pellicola e digitale che caratterizza tutte le scene nell’abitazione del protagonista, il ventre che lo custodisce nel buio, in una solitudine pandemica. I 35mm scelti per la fotografia principale si confrontano con il pannello a led che proietta un cielo in 8K, adesso sereno, adesso nuvoloso, posto al di là della vetrata di questo finto flat” londinese ricreato in un teatro di posa. Anche in questo caso, coesistono due piani di realtà, che sono anche due piani estetici, a rendere evidente come non ci possa essere mai un solo livello di narrazione in questa storia che racchiude in sé la stessa essenza del cinema, la possibilità di visitare il passato, di avere davanti, vivo, anche chi non c’è più.

Se in Obayashi - in linea con il testo originale - questa possibilità consumava, vampirizzava, cannibalizzava, il protagonista, che veniva prosciugato da questi continui salti nel tempo, nel film di Haigh il passato è un luogo di riconciliazione, finanche di cura. Se la tipica conformazione delle case giapponesi, senza sedie o divani, creava un dislivello, una differenza di altezze tra i protagonisti che dialogavano, questo remake trova il suo senso in una rinnovata orizzontalità della linea degli occhi, ponendo sullo stesso piano chi è fantasma e chi non lo è. È infatti il ribaltamento queer operato da Haigh a dare una nuova chiave di lettura alla storia di Yamada: trasformando la coppia del racconto originale in una coppia omosessuale, introduce il tema del coming out ai tempi dell’Aids, quando i membri della comunità gay avevano stampata sulla fronte già la propria “condanna”, considerati zombie che camminano - fantasmi anche loro, quindi - a causa dell’ignoranza e dello stigma sociale. È per questo che non esiste differenza ontologica e visiva tra i fantasmi e il protagonista che li visita: entrambi - per ragioni differenti - sono segnati dalla non-esistenza sul piano della realtà. Sono proiezioni di un futuro che non li prevede più.

Se in Obayashi la scena cruciale di tutto il film veniva accompagnata dall’aria del Gianni Schicchi di Puccini, in chiave diegetica, raccontando del dualismo tra famiglia e relazioni sentimentali (O mio babbino caro), qui la colonna sonora, sempre in funzione diegetica, ma anche autobiografica, suona i Pet Shop Boys e i Frankie Goes to Hollywood, ovvero le band che hanno segnato l’adolescenza dello stesso regista. Ulteriore scelta che radica la storia nel mondo reale, che riduce il senso di straniamento e annulla la differenza troppo sottolineata tra il piano della finzione e quello della verità. Anche la sparizione dei fantasmi, che nel film giapponese era affidata ad un gioco di luce, nella trasposizione di Haigh avviene attraverso il montaggio: è il cinema, con i suoi meccanismi, a determinare la presenza o meno degli “estranei” in scena. E, nel cinema, non esiste separazione tra ciò che consideriamo finto e ciò che consideriamo reale. Si è tutti fantasmi, senza distinzioni.