Se lo scorso Billy Lynn era un film sulla “società dello spettacolo” (quello della guerra) come la intendeva Guy Debord, sulla separazione insanabile delle immagini dall’esistenza umana, in cui il fotorealismo dei 120 frame al secondo creava una frattura fra ciò che veniva messo in scena e ciò che effettivamente vedevamo, in cui la tenerezza (quella adolescenziale di Joe Alwyn e di Makenzie Leigh, che si traduceva in una genuina attrazione dei corpi) e l’umanesimo (quello fordiano del capitano Vin Diesel) cercavano di resistere “all’esilio dei poteri umani in un al di là”, come teorizzato dal filosofo francese, adesso Gemini Man è un film che accetta le regole di quella “società dello spettacolo” che, banalmente e senza le implicazioni sociali di Debord, identifichiamo con Hollywood.

Per il suo nuovo film, Ang Lee non può in nessun modo scegliere un attore semisconosciuto, esordiente come lo era Joe Alwyn nel 2016, ma deve per forza di cose affidarsi ad una star che proviene da quella “società”: un attore dal volto iconico, che gli spettatori ammirano ancora adesso ma di cui ricordano perfettamente le fattezze giovanili. Doveva essere Tom Cruise, è Will Smith. Lee non si limita a rimuovere dal suo cinema (attraverso il fotorealismo che la tecnologia utilizzata permette di raggiungere) i trucchi e le manomissioni che lo rendono tale, come aveva fatto con il precedente esperimento in hfr, ma inserisce la finzione della computer grafica e degli effetti speciali in un contesto che non consente di “nascondere” nulla per via del dettaglio garantito dal frame rate.

Ogni scelta tecnologica per Ang Lee è prima di tutto una scelta filosofica. Sapendo che il clone di Will Smith non è Will Smith, ma una sua copia sintetica, utilizzare il ringiovanimento digitale sarebbe un errore filosofico. Il “giovane” Will Smith di Gemini Man deve essere quindi un personaggio creato da zero utilizzando il computer e non una versione ritoccata digitalmente dell’attore. Il clone svela così la sua alterità rispetto al mondo che lo circonda non per le sue mancanze tattili, per la sua texture, ma per i suoi movimenti e le sue espressioni. Quello di Ang Lee è cinema che si riflette e che si specchia in se stesso. Perciò Gemini Man, domandandosi cosa prova il suo attore protagonista nel vedersi nuovamente giovane, rinuncia ad essere un film universale come lo era invece il precedente Billy Lynn. Non è interessato ad indagare il rapporto che gli uomini (tutti) hanno con la loro giovinezza, ma nello specifico quello che le star hanno con la loro immagine passata. Eppure, seguendo il ragionamento di Debord, per cui la società dello spettacolo è tutta la società e non una sua componente minoritaria, gli interrogativi autoreferenziali di Gemini Man, solo in apparenza riferibili esclusivamente ad un sistema chiuso, finiscono per riguardare tutti noi.

Come lo scorso Billy Lynn, anche Gemini Man è un film di “primi piani”. La tecnologia permette ad Ang Lee di lavorare come mai aveva fatto sui volti dei suoi personaggi (ma prima di tutto dei suoi attori) e di veicolare emozioni e tensioni attraverso i muscoli della loro faccia. Si tratta di una precisa decisione artistica del regista, influenzata però dal fatto che quel regista si trova adesso ad utilizzare una determinata tecnologia che gli permette di adottare soluzioni visive che in passato non aveva approfondito. Il fatto che per sperimentare tutto questo, per perfezionare una tecnica di ripresa che attualmente utilizza solo lui, adattandola ad un film necessariamente artificioso ma che deve fare i conti con il realismo imposto dal mezzo, Ang Lee debba “ridursi” a lavorare ad un prodotto come Gemini Man, è frutto di quel compromesso tra aspirazioni artistiche e necessità della “società dello spettacolo” che il regista taiwanese ha deciso di accettare con serenità ormai anni fa.

L’eccessiva semplificazione che subisce la narrazione (mai così generica e superficiale nel cinema di Ang Lee) ci chiarisce che il senso dell’operazione risiede altrove, nelle immagini. Proprio quando raggiunge il massimo del realismo, il cinema svela allo spettatore la sua origine artificiosa e fittizia. La domanda che pone Gemini Man è chiara e netta: l’ultima evoluzione del cinema passa per la sua stessa negazione?